Le associazioni tra cibo e letteratura hanno generato davvero un numero infinito di operazioni: sono stati scritti molti saggi, sono stati analizzati i testi di poeti e romanzieri antichi e moderni, per dare un nome e un significato alla simbologia del cibo nelle loro parole.
Non vogliamo qui certamente approfondire un così ampio e complesso campo di riflessione, ma ci piace «lanciare» un primo sassolino prendendo in prestito le parole citate da alcuni docenti universitari nel corso di un dibattito televisivo di qualche anno or sono: “Il cibo e la cucina sono delle grandi metafore dell’esistenza, quindi si prestano particolarmente bene a essere incluse in una narrazione dell’esistenza, a rappresentarla in qualche modo” afferma il professor Massimo Montanari, docente di Scienze dell’Alimentazione dell’Università di Bologna.
Una visione così essenziale, così scarna eppure così completa ci colpisce perché si accosta in modo molto empatico al nostro vissuto e al nostro modo di concepire l’intera filiera dell’olio, alimento primario per eccellenza, e le sue declinazioni.
Sin dalla sacre scritture, per poi arrivare alla Divina Commedia e a risalire la storia tutta della letteratura italiana, il cibo ha negli scritti un valore simbolico sempre diverso e una grande valenza emotiva: dal frutto primigenio delle Sacre Scritture ai formaggi della grotta di Polifemo nell’Odissea; dalla simbologia boccaccesca, fino alla carestia dei Promessi Sposi, sempre la letteratura e la poesia italiane hanno incastonato il cibo al centro di ragionamenti ben più complessi di un semplice ingrediente quotidiano.
Approfondiamo in questa sede alcuni esempi, scelti tra migliaia, dell’amplissima letteratura del secolo scorso, cercandone volutamente alcuni dei meno citati abitualmente: ci piacciono per la loro profondità e per la valenza metaforica particolarmente significativa.
Così, nel 1912, scrive Grazia Deledda in «Chiaroscuro» accostando ineluttabilmente il cibo a un significato di rivalsa e di coesione sociale: Per la festa di Sant’Anastasio le famiglie anche le meno abbienti del villaggio, anche quelle che eran cariche di debiti o che avevano i figli agli studi, apparecchiavano la tavola, vi mettevan su mucchi di focacce, taglieri colmi di carne arrostita allo spiedo, formaggio, giuncata, vino e miele e aprivan la porta a chi voleva entrare a banchettare. Gli ospiti venuti dai paesi vicini, i poveri e i monelli del villaggio accorrevan come mosche: […]. Intere giovenche e colonne di focacce venivano distribuite a porzioni eguali […] agli ospiti e ai poveri che così portavano a casa, ai vecchi invalidi, agli infermi, alle donne vergognose, la cena e anche il pranzo per l’indomani.
Diversa è invece l’interpretazione nel Gattopardo, in cui l’opulenza connota la classe nobile e la differenzia dalle altre classi sociali. Dalle parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa emerge che non solo il sapore dei cibi ha la sua importanza, ma anche il loro aspetto e la loro presentazione: il cibo diventa un’esperienza estetica non solo per il gusto. “L’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.
Il carattere fortemente straniante ed allegorico, estremamente concentrato sugli aspetti linguistici e semantici della parola, è tipico della narrazione di Italo Calvino ed emerge tutto in questo stralcio di «Palomar», uno dei lavori più tardi (anni Novanta) e complessi dell’autore: «Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma. Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato, come tutte le lingue nutrite dall’apporto di cento dialetti. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspetto esteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi un po’ di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi.”
Concludiamo con una scrittura «parlante», quella di Camilleri che ne «Il campo del vasaio» (2008) racconta con le sonorità del suo stretto dialetto le portate di una cena (rigorosamente di pesce) in Sicilia: qui pare davvero di assaporarlo e toccarlo, quel cibo, e di vivere dentro il paesaggio isolano con i suoi colori, gli odori e l’aria profumata …
Arrivarono al ristorante “Peppucciu ’u piscaturi”, sulla strata per Fiacca, che erano squasi le deci. Il commissario aveva prenotato un tavolo pirchì quel locale era sempre chino di genti. […] Menu: antipasto di mare (anciovi fatte còciri nel suco di limone e condite con oglio, sali, pepe e prezzemolo; anciovi “sciavurusi” al seme di finocchio; ’nsalata di purpi; fragaglia fritta); primo piatto: spaghetti alla salsa corallina; secondo piatto: aragusta alla marinara (cotta sulla braci viva, condita con oglio, sali e tanticchia di prezzemolo). Si scolaro tri buttiglie di un vino bianco tradimintoso: pariva infatti calare come acqua frisca, ma doppo, ’na volta ch’era dintra, partiva ’n quarta e addrumava il foco.”